Qualsiasi dichiarazione d’amore che C. si fosse aspettato da V. era volata via nel vento, inghiottita dall’abituale malumore della giovane appena sveglia. V. lo guardava come se si fosse appena resa conto di aver passato la notte con un enorme scarafaggio e C. si alzò dal letto, il volto rosso dall’imbarazzo, mentre cercava di lisciare con le mani sudate le pieghe che si erano irrimediabilmente formate sulla sua camicia e sui suoi pantaloni e che sembravano volersi espandere all’infinito, nonostante i suoi deboli sforzi per ripristinare l’ordine perduto.
Mentre gli sembrava di morire sotto lo sguardo arrabbiato di V., C. non riusciva davvero a capire per cosa si vergognasse di più: se per le sue fantasie in cui V. sarebbe caduta subito ai suoi piedi colta da un lungo fremito di amore e desiderio o per il fatto che tutto ciò non si fosse realizzato e lui si trovasse di fronte ad una ragazza accigliata e irritata. Non che quella espressione di aperto disappunto la rendesse meno bella, pensò C. mentre cercava di fare ordine tra i suoi pensieri e si chiedeva con una profonda e malcelata agitazione se sarebbe mai stato in grado di ricondurre V. all’interno dei confini stretti e, almeno in teoria, invalicabili della sua mansione. Sarebbe riuscito a pensare a lei solo come ad una delle segretarie che negli anni aveva assunto e alle quali aveva affidato compiti e mansioni dei quali lui non avrebbe mai voluto occuparsi o sarebbe stato costretto a licenziarla perché ormai era stata superata ogni possibile decenza?
C. sapeva perfettamente che non era mai stato in grado di esercitare su V. nessun tipo di autorità, neanche nei suoi primi giorni di lavoro, quando la ragazza sembrava ascoltarlo con attenzione e curiosità, con la timidezza tipica di chi ancora non è riuscito a prendere le misure e ha paura di non essere all’altezza del compito assegnatogli o del nuovo posto di lavoro. L’uomo si rendeva conto in quel momento che lei aveva recitato una parte, la parte che pensava le venisse richiesta di recitare e che ben presto la sua vera natura era emersa da quella fasulla superficie di condiscendenza e sollecitudine. Ma se lei non era riuscita a rispettarlo prima, come avrebbe mai potuto farlo ora che tra loro non c’erano più barriere e si erano guardati negli occhi come due persone e non attraverso i loro ruoli? C. avrebbe voluto poter dire qualcosa, trovare le parole giuste per esprimere tutto ciò che gli passava per la mente, ma la sua bocca si era fatta improvvisamente secca e le parole sembravano non voler uscire per quante volte egli potesse schiarirsi la voce.
Fu V. a rompere quello stallo silenzioso con un sospiro profondo ed esausto. “Credo sia meglio se parliamo signor C.”, disse indicandogli con un braccio di raggiungere il salotto. Non c’era più traccia di rabbia in quegli occhi così espressivi e profondi, ma solo una stanchezza invincibile, come se – per l’ennesima volta – un peso insostenibile le fosse caduto sulle spalle e lei, al pari di Tantalo, avesse il dovere di sorreggerlo, a costo della sua stessa vita. C. seguì la direzione di quella mano affusolata e si diresse in soggiorno, una piccola stanza arredata in modo semplice, ma caldo, senza soprammobili inutili o vezzi. Non c’erano foto che le ricordassero la famiglia, non c’erano mobili pieni di ninnoli, ma solo un piccolo divano azzurro, un tappeto e un enorme stereo di un rosa acceso. Quasi C. poteva immaginarla mentre ballava forsennatamente per la stanza, i capelli che le frustavano il viso e la bocca che si apriva per cantare a squarciagola. Un piccolo sorriso gli piegò le labbra, mentre si accorgeva che quella ragazza gli piaceva davvero e che avrebbe pagato più o meno qualsiasi cifra per guardarla ballare. Quasi senza volerlo (o forse no?) aveva rovinato tutto; se aveva mai avuto qualche speranza con V., ora non rimaneva più nulla. Ma poi quale speranza avrebbe dovuto nutrire? Lui era molto più grande di lei, avevano stili di vita completamente diversi, ambizioni inconciliabili (anche se V. non ne aveva mai dimostrato alcuna, ma in fondo chi non ne ha?, pensava C.) e anche i loro appartamenti e i loro mobili sembravano appartenere a due mondi totalmente incompatibili: lui che amava i contrasti, aveva arredato casa sua sui toni del bianco e del nero, mentre l’appartamento di V. era colorata ed accesa come lei.
Quando lei lo raggiunse, si era vestita e lavata il viso con energia, al punto che ora la sua pelle quasi trasparente aveva qualche macchia rossa sulle guance. Gli fece un gesto per invitarlo a sedersi e lui – cercando di sconfiggere il proprio disagio – si appollaiò sul bordo del divano. Non riusciva a ricordare un’altra occasione della sua vita in cui si fosse sentito così sotto pressione; soprattutto non di fronte ad una ragazza così giovane e seriosa. Cosa gli avrebbe detto? E lui come avrebbe reagito? Avrebbe dovuto dire qualcosa? Ribattere alle sue accuse o tacere e accettare qualsiasi cosa lei avrebbe potuto dirgli? Le domande e i pensieri si ricorrevano nella sua mente come api impazzite in un prato di fiori variopinti. Il volto di V., invece, era fermo: nessuna espressione ne deturpava la bellezza particolare e solo un piccolo lampo intermittente attraversava i suoi occhi grandi e imperscrutabili. Sembrava quasi che il suo viso si volesse aprire in una risata fragorosa, ma che V. cercasse di mantenere il controllo e soffocare l’ilarità che le solleticava la gola. Solo quel lampo pareva fosse lì a testimoniare ciò che V. gli stava nascondendo. Possibile che la ragazza lo stesse semplicemente prendendo in giro? Che tutti i pensieri che lui aveva macinato in quei pochi minuti da solo, e la notte prima, non fossero altro che sciocchezze? Che in realtà non fosse successo assolutamente nulla degno di nota e che a V. non importasse assolutamente niente di tutta quella situazione e volesse semplicemente tornare alla sua vita di tutti i giorni, dimenticando completamente che loro due avevano passato una notte insieme?
L’orgoglio di C. parve insorgere di fronte a quelle considerazioni. Era stata V. a chiedergli di non lasciarla sola, di non abbandonarla, di rimanere con lei anche se lui avrebbe di lunga preferito andarsene, tornare a casa e dimenticarsi di averla incontrata quella sera, di averla vista piangere su una pinta di birra. E invece lei lo aveva costretto a rimanere, a calpestare la propria etica professionale, a distruggere i leciti e necessari confini che C. aveva creato tra sé e i suoi sottoposti. E aveva fatto tutto ciò con sei semplici parole – Non te ne andare ti prego – che ancora erano in grado di risuonare dentro di lui, creando una eco infinita e tagliente, risvegliando in lui tutto quel senso di protezione e amore che mai aveva provato così profondamente per qualcuno prima di quel momento. E ora tutto doveva finire con un semplice battito di ciglia? Ora non doveva esistere più nulla di quello che aveva provato? Non sarebbe rimasto nulla di tutte le fantasie e i pensieri che l’avevano vista protagonista almeno nella sua mente? Avrebbe dovuto dimenticare ogni cosa?
E mentre C. fremeva di indignazione per le parole che V. non aveva ancora pronunciato, la giovane aveva preparato del caffè, ne aveva riempito una tazza senza chiedere a C. se ne volesse un po’ e aveva preso posto sedendosi a gambe incrociate su un piccolo tavolino sistemato davanti al divano, le dita lunghe intrecciate alla tazza bollente. I due ora potevano guardarsi negli occhi senza che V. dovesse allungare il collo verso di lui e quel cambio di prospettiva le strappò un sorriso compiaciuto. Quando c’era qualcosa di importante da dire bisognava sempre avere il coraggio di parlare da pari a pari, qualsiasi fossero le circostanze o i ruoli che si era costretti a ricoprire all’interno della società. E V. era stanca di rendere tutto molto più difficile di quanto sarebbe dovuto essere. Non aveva più voglia di scavare nell’animo degli altri fino ad arrivare al punto di poterne estrarre il cuore pulsante. Aveva capito che era peccato, aveva capito che era sbagliato carpire il segreto dell’anima altrui perché non avrebbe mai potuto donare agli altri qualcosa che fosse anche solo lontanamente equiparabile per valore o peso.
In un libro aveva letto che Commettiamo sempre peccato quando non ci accontentiamo di quello che il mondo ci offre spontaneamente, di ciò che una persona ci dà per libera scelta, è sempre peccato tendere avidamente la mano per carpire il segreto di un altro, e non aveva più smesso di ragionarci su, di masticare ogni parola sotto i denti fino a renderla familiare e commestibile. V. continuava a ripetersi quelle parole nella mente anche mentre sorseggiava il suo caffè caldo e osservava placidamente C., che pareva seduto su scomodissimi carboni ardenti. Ripeteva quella frase dentro di sé come un mantra e – più la ripeteva – più la trovava giusta, sensata, più sentiva che, almeno quella volta, sarebbe stata in grado di lasciare andare, dimenticare, cancellare la propria colpa e accettare ciò che la vita aveva deciso di darle. Sarebbe finalmente riuscita a mantenere il controllo sulla sua fame vorace e insaziabile di vita e di persone. Forse, per una volta, sarebbe andato tutto bene anche per lei. O almeno V. avrebbe lavorato perché fosse così. Quando si decise a parlare C. sussultò come se qualcuno l’avesse pizzicato e alzò lo sguardo ad incontrare finalmente il suo.
Parlarono a lungo quella mattina. O meglio, V. parlò molto, mentre C. si limitava ad ascoltare quella sorta di sermone improvvisato pieno di frasi e parole che mai si sarebbe aspettato di sentire da una ragazza così giovane e in una situazione così bizzarra e sconclusionata. Quando lei finì di parlare e il silenzio scese nuovamente su quel piccolo salotto, C. rimase ancora qualche istante seduto su quel divano azzurro come se quest’ultimo fosse divenuto la sua sola àncora di salvezza, gli occhi spalancati e perplessi. V., invece, si alzò, si sgranchì le gambe indolenzite e lo salutò con un gesto della mano: ci vediamo dopo in ufficio signor C. e, così dicendo, sparì in bagno.
Il signor C., a metà tra lo sbigottito e l’indignato, si alzò con uno slancio eccessivo e quasi corse alla porta, sbattendosela poi alle spalle con irruenza, convinto che quella ragazza non fosse altro se non il diavolo.