Spruzzi di creatività

“Oh, Cristo santo”.

Non posso addormentarmi, non posso addormentarmi proprio ora. E mentre cercavo di tenere gli occhi aperti e fissarli intensamente su una crepa seguendone il percorso lungo il soffitto, lui si avvicinò al mio orecchio e sussurrò:”Ti piace, vero?”Odiavo quelli a cui piaceva parlare. Ora avrebbe anche cominciato a chiedermi quali fossero le mie fantasie o se mi sentivo la sua troietta? “Sì, sì, continua”, gli risposi io cercando di non aggrottare le sopracciglia. Abbassai lo sguardo sui nostri corpi e mi accorsi che il suo cazzo era già dentro di me. Come era possibile che io non sentissi nulla? Eppure stava muovendo i fianchi e grugniva, lui sicuramente si stava divertendo.

Non ti addormentare, non ti addormentare. Non è educato addormentarsi mentre qualcuno pensa che tu te la stia spassando. Cercai di pensare ad altro. Avevo spento la luce del bagno prima di uscire di casa? Mi sembrava di sì, ma ora non ne ero più così sicura. Se avesse finito in fretta avrei potuto inventare un impegno inderogabile e sarei potuta tornare a casa, dove nessuno mi obbligava a fingere di divertirmi. Ma quanto gli ci voleva? I suoi fianchi continuavano a pompare senza sosta. Di solito il problema era l’eiaculazione precoce e quegli uomini che – dopo neanche trenta secondi – si svuotavano le palle e sostenevano che non era colpa loro, ma che io ero troppo bella e loro non erano stati in grado di resistere. Sì, certo, come no. E proprio quando avrei voluto che tutto finisse il più velocemente possibile, questo tizio voleva a tutti i costi dimostrarmi cosa volesse dire resistenza. Quanto tempo era passato? Cinque minuti? Dieci? Ero morta e mi ero reincarnata?

Qualcuno si era mai sfilato con un cazzo dentro così all’improvviso? Si sarebbe rotto se mi fossi mossa troppo in fretta? A quel punto, almeno, avrebbe smesso. Solo che poi sarei stata socialmente obbligata a soccorrerlo e questo avrebbe ritardato il mio rientro a casa. Ma almeno avrei potuto scrivere sul curriculum: una volta sono riuscita a rompere un cazzo e non metaforicamente. Avrei potuto inserirlo nella sezione degli interessi o delle abilità personali.

“Oh lo sento, questo è il tuo punto g”. Eh? Ma è drogato? Neanche io so dove sia il mio punto g e lui è sicuro di averlo trovato. Cristo santo. Il mio silenzio sembrava innervosirlo, come se avessi dimenticato la mia battuta e un intero pubblico ci stesse guardando con tanto d’occhi, pronto a fischiare la nostra interpretazione e lanciarci pomodori troppo maturi. Sentivo che aveva bisogno di una risposta, di una rassicurazione. È uno di quelli, mi dissi, uno di quelli che anche se il tuo respiro cambia leggermente hanno bisogno di sapere che sono i migliori amanti che tu abbia mai avuto. Cristo santo. “Oh sì, è proprio lì”, lo incitai. Ecco perché i copioni dei film porno sono inverosimili. Ti senti parlare e l’unica cosa che pensi è: ma che cazzo sta dicendo questa idiota? Forse se avessi iniziato a gemere lui avrebbe creduto ad un orgasmo e si sarebbe sentito libero di venire e la tortura sarebbe finita e io sarei stata libera di tornare a casa. Finsi un orgasmo destabilizzante, il più profondo e poetico che la mia mente avesse mai potuto concepire. Aggiunsi anche qualche ti prego ogni tanto, giusto per variare sul tema e renderlo credibile. Tremavo in tutto il corpo, ero in preda alla più devastante frenesia. Se mi fossi vista dall’esterno mi sarei applaudita per la magistrale interpretazione. Lui, d’altro canto, sembrava concentrato come un atleta durante la maratona: sempre lo stesso ritmo un passo dopo l’altro e io cercai di trattenere uno sbadiglio. Era stata una giornata lunga, stressante e pesante e io avevo immaginato che chiuderla con un po’ di sesso sarebbe stata una buona idea, mi avrebbe aiutato a rilassarmi. E invece sentivo che – più quella pantomima andava avanti – più ero sull’orlo di una crisi di nervi. Il finto orgasmo mi aveva davvero stancato e sentivo pizzicarmi la gola per quegli urletti senza senso. Mi accasciai sul cuscino senza fiato, come se fossi reduce da una corsa per fuggire ad un maniaco seriale. Lui si interruppe per un paio di secondi, giusto il tempo di guardarmi. “Hey bambola, abbiamo appena iniziato”. Che cosa? O Cristo in croce non puoi farmi questo, no davvero. Cosa ho fatto di male? Cosa ho sbagliato? Ma non ottenni nessuna risposta, anche se rivolsi gli occhi al cielo. Cercai di non soffermarmi troppo su quel bambola buttato lì così, come se fosse normale chiamare una donna in quel modo, perché se no gli avrei vomitato addosso. E lui – decisamente incapace di comprendere il mio vero stato d’animo – riprese a spingere come se avesse tutto il tempo del mondo, come se io mi stessi realmente divertendo. Che le divinità mi assistano se ora non lo uccido. Sul comodino c’erano le chiavi della stanza, appuntite e metalliche. Avrei potuto infilzargliele in un occhio e forse si sarebbe fermato e io sarei potuta scappare, lasciarlo lì ad urlare per il dolore. In fondo non gli avevo detto neanche il mio vero nome, non avrebbe potuto rintracciarmi, sarei rimasta un’ombra, una signora nessuno. Per sicurezza avrei potuto tingermi i capelli di un altro colore e usare lenti colorate per gli occhi. Chi avrebbe mai potuto trovarmi? Sarei rimasta impunita, lui avrebbe smesso di abbordare giovani donne annoiate ai banconi del bar, avrebbe imparato la lezione e si sarebbe chiuso in un monastero benedettino per riflettere sulla sua vita dissoluta e convertirsi alla parola del Signore. In fondo, avremmo vinto tutti se solo fossi stata incline alla violenza. Purtroppo non ero così fortunata. Quando riportai lo sguardo sul suo volto trattenni un’imprecazione. Cosa mi aveva attirato di quel viso pallido, di quella fronte alta e di quegli occhi castani? Non avevamo scambiato molte parole, ma sembrava divertente, un uomo alla mano, che sapeva quello che stava facendo e quello che voleva. Avevo sempre avuto un debole per gli uomini così. Solo che poi stranamente si rivelavano sempre una truffa ben vestita. Uomini del cazzo. Sembrava un robot mentre con lo sguardo concentrato e le palpebre socchiuse continuava a sbattere i fianchi contro i miei. Domani mi farà male il bacino, farò fatica a sedermi, sarò costretta a ricordare questo stronzo per chissà quanti giorni. Maledetto bastardo. “Posso continuare così per ore” e lo annunciò con una voce così volutamente suadente e sensuale che non potei più sopportarlo. E che cazzo. Quello stronzo cercava di fare il Rodolfo Valentino con me, mentre io facevo di tutto per non addormentarmi. Gli rifilai una, due, tre ginocchiate sulla schiena prima che lui si accorgesse che il mio intento era fargli male e non dimostrargli il mio apprezzamento sessuale. Avrei zoppicato il giorno dopo, già lo sentivo. Lui, però, finalmente si fermò, come pietrificato dal mio gesto inaspettato. Vedevo la sua maschera di sicurezza sgretolarsi un secondo dopo l’altro, aveva perso il controllo della situazione e lo sapeva. Non c’era più nulla che avrebbe potuto fare o dire per convincermi che lui fosse l’uomo che avevo sempre sognato di conoscere. Mi accorsi presto che – se non avessi fatto qualcosa – presto mi avrebbe schiacciato col suo stesso corpo e io non avrei avuto scampo. “Ti vuoi levare dal cazzo?”, sbraitai esasperata. Al mio tono aggressivo, lui strabuzzò gli occhi incontrando il mio sguardo furioso e si scostò da me, massaggiandosi il punto dolorante. Approfittai della sua confusione per vestirmi in fretta e furia, indossare scarpe e cappotto e dirigermi alla porta come se la stanza stesse andando in fiamme.

“Ma avevi detto che ti piaceva!” piagnucolò lui ancora rannicchiato nel letto. “Oh cristo santo”, sbottai io chiudendomi la porta alle spalle.

Di tutto un po'.

“Don’t you hear me howling babe?”

I miei occhi spalancati sul soffitto bianco e alto avevano smesso di vederne le crepe ormai da molto tempo: rimanevano fissi e aperti, ma le immagini che vi scorrevano davanti non avevano niente di reale. Si svolgevano lentamente, in un rigoroso ed elegante bianco e nero che rendeva tutto più sfocato e distante. Stava succedendo davvero o stavo immaginando ogni cosa? Non riuscivo più a ricordarlo, ma quelle scene da cinema muto continuavano a trascinarmi con loro in una storia che iniziava e finiva senza che qualcuno avesse mai avuto la possibilità di schiacciare né play né rewind. Non potevo abbassare le palpebre, non potevo scivolare in un’altra narrazione: ero stata trascinata all’interno di un loop vertiginoso di cui la mia mente era l’unica responsabile e non potevo scappare.

Lo vedevo venire verso di me, ogni passo lento e misurato come se avesse tutto il tempo del mondo, come se non ci fosse più nessuna fretta, come se sulla terra fossimo rimasti solo lui e io e nessun’altra cosa avesse più importanza. Mi guardava come aveva sempre fatto: nessun sorriso, uno sguardo che ti scruta, due occhi che ti soppesano e ti giudicano mancante. Avanzava sicuro di sé, in una nebbia fitta e incorporea che – a tratti – mi nascondeva il suo viso, i suoi lineamenti, e io potevo solo immaginare cosa avrei visto quando si sarebbe avvicinato, quando non ci sarebbe più stato niente a dividerci se non i nostri rispettivi respiri.

Avrei voluto alzarmi da terra, avrei voluto sfidare il suo sguardo dalla giusta altezza, colmare quella differenza, ma qualcosa mi ancorava al pavimento e mi sentivo così piccola e indifesa, mentre tutto il mio corpo si inarcava come la corda di un arco pronta a scoccare una freccia: ma io sapevo di non avere nulla nella mia faretra, nulla che potessi gettargli addosso. Non c’era rabbia, non c’era delusione, non c’era dolore. Li avevo provati davvero una volta, una volta di cui ora non ricordavo molto; li avevo provati per qualcosa di reale, di vivo, di urgente. Ma lì non c’era niente di tutto questo, non c’era un fuoco da spegnere o una tempesta da placare. C’era solo freddo e una luce opaca che cercava di filtrare attraverso tutta quella nebbia, che cercava di accecarmi senza riuscirci. I miei occhi ora riuscivano a guardare solo la punta delle sue scarpe, perché il mio collo non aveva più voglia di sorreggerli, di aiutarli a toccare le stelle. Sapevo che mi avrebbe calpestato con tutta la forza di cui era capace, non avrebbe lasciato nulla di me, nulla che fosse riconoscibile. E poi cosa ne sarebbe stato di me? Cosa avrei potuto fare quando fossi stata a pezzi, incapace di ricompormi, di parlare, senza più una mente che mi difendesse dagli inganni? Sentivo già il dolore che avrebbe seguito la disintegrazione, potevo già vedere coi miei occhi stanchi e spalancati nel vuoto in quanti minuscoli pezzettini mi avrebbe ridotta, quanto avrebbe riso crudelmente di quello che ero diventata, di quanta influenza aveva avuto nella mia vita, di quanto potere sulla mia esistenza avevo deciso di cedergli senza battere ciglio.

E proprio mentre sentivo una fitta di panico squarciarmi il petto, proprio quando la paura avrebbe dovuto prendere il sopravvento su ogni cosa, saturare ogni poro e lasciarsi dietro un acre odore di sudore, la scena sembrò esplodere di fronte ai miei occhi e i ruoli si ribaltarono talmente velocemente che mi ci volle qualche secondo per capire cosa stava realmente succedendo. Ero in piedi, come un burattino a cui avessero strattonato violentemente i fili; non c’era nessuno a reggermi, però, mentre i miei piedi erano inguainati in stivali di pelle con improbabili tacchi a spillo. Mi aspettavo di barcollare, sapevo che non avrei potuto fare un passo senza inciampare e cadere. E invece non avvenne nulla di tutto questo: ogni passo era deciso, fermo, ogni passo mi avvicinava sempre di più a lui, che ora era a terra, il volto scavato dal terrore. Lui sapeva cosa sarebbe successo, io ancora non riuscivo a immaginarlo. I miei capelli erano sferzati da un vento invisibile, un’aria di tempesta sembrava avvolgermi, mentre intorno a me tutto era avvolto da un silenzio di piombo e l’aria era immobile.

Il sangue rombava nelle mie orecchie come il tuono lontano prima del diluvio, mentre a dividerci c’era solo un passo. I miei occhi si soffermarono sulle sue labbra: sembravano muoversi, dire qualcosa, ma non potevo sentirlo, non potevo sentire nulla che non fosse la mia pelle che crepitava, i miei passi che si imponevano sul pavimento, le mie vene che brulicavano di vita. Una voce roca nella mia mente bisbigliava: vendetta, vendetta, vendetta. Continuava a ripeterlo come un mantra, una formula magica. Quella parola sembrava creare un cerchio infuocato intorno a me e i miei occhi ora erano pieni di quelle lettere, di quelle fiamme che si alzavano selvagge verso il soffitto. Camminai sul suo corpo molle come se mi fossi preparata per tutta la vita in attesa di quell’unico momento eterno. Sentivo la sua pelle cedere sotto i miei tacchi appuntiti, che affondavano in lui come se le sue ossa si fossero improvvisamente trasformate in burro fuso. Nulla poteva fermarmi. Sentii i suoi denti spaccarsi sotto la violenza dei miei passi, le orbite spappolarsi, il cranio aprirsi a metà come una noce di cocco matura. E quando tutto sembrava finito, quando non c’era più nulla da distruggere, ogni cosa si ricomponeva, il suo volto tornava fragile e spaventato sotto i miei tacchi ed io – ogni volta – sceglievo di ridurlo in poltiglia. Ogni volta.

Gli uomini si sentono lusingati se ammetti di pensare a loro quando ti masturbi, non concepiscono quanto sia ancor più gratificante venire per il semplice desiderio di farlo. Ogni volta che mi chiedono a cosa penso quando mi masturbo vorrei poter semplicemente rispondere: immagino cosa proverei a distruggere chi ha pensato di poter distruggere me e non posso fare a meno di tremare per il piacere che questo pensiero mi dà. Invece sorrido serafica e dico: Ma a te, sciocchino.

Di tutto un po'.

Penelope, parte II.

Si pensa spesso che la parte più difficile sia trovare un modo brillante per rompere il ghiaccio. Ma per creare una crepa nel riserbo altrui basta una battuta e una battuta – di solito – è semplicemente una frase ad effetto, breve ed efficace. E proprio perché ad effetto, breve ed efficace non si lascia alle spalle una scia facile da seguire.

Con tutti i romanzi di cui si nutriva, L. sapeva bene cosa fosse una frase ad effetto e come ricreare nella propria mente una scena che non avesse grinze, che fosse impeccabile sotto ogni aspetto, una scena in cui ogni battuta era sapientemente programmata e prevista e nulla poteva sfuggire al suo controllo. L., dunque, compensava la mancanza di immaginazione e di arguzia con una profonda e compulsiva necessità di controllare ogni cosa succedesse intorno a lui fin nel più piccolo particolare.

Ma ora cosa avrebbe dovuto fare con quella ragazza? Di certo, non aveva risposto come L. si era aspettato, non aveva alimentato il discorso che lui aveva sognato in quei pochi istanti prima di parlare e ora erano lì, entrambi in silenzio, e i minuti scorrevano inesorabili e ogni autobus poteva essere quello giusto e ogni autobus poteva portarla lontano.

Quegli occhi viola guardavano l’orizzonte, mentre la ragazza era piegata in avanti, il mento poggiato sulle sue mani intrecciate. “Non ho detto la battuta giusta tesoro?” La sua voce giunse inaspettata, mentre il sole tramontava e donava sfumature rossastre ai suoi capelli. Il fuori programma lo esaltò e lo sconvolse al tempo stesso: ora cosa avrebbe dovuto rispondere? “Avresti davvero voluto che ti spiegassi chi è Penelope? Non sarebbe stato un insulto alla tua intelligenza?” L. si volse verso di lei e scorse un accenno di sorriso sulle quelle labbra carnose. Nonostante fosse solo una leggera piega sul suo viso, lo aveva completamente stravolto, rendendolo più morbido e pieno: non c’erano più spigoli appuntiti che avrebbero potuto ferirlo. La donna evidentemente lo trovava divertente. “Io sono qui solo per riflettere. Se speri di potermi seguire su uno di questi autobus per scoprire dove abito, la tua è una speranza vana.”

No, niente stava andando come L. avrebbe mai potuto immaginare. Da protagonista principale di un’avventura cittadina, ora era divenuto la spalla di una donna arguta e spiritosa che non aveva intenzione di giocare alle sue regole, non aveva nessun desiderio di piegarsi ad un copione sconosciuto nel quale avrebbe dovuto guardarlo in maniera adorante e remissiva, pronta ad essere plasmata dai suoi sogni e dalle sue aspettative.

Non c’è nulla di meglio della realtà per distruggere qualsiasi illusione la mente umana possa mai aver creato. E in quella sera frizzante la realtà era una donna che non aveva nessuna intenzione di soddisfare il fragile ego di un uomo. Quel breve divertimento, però, le aveva fatto dimenticare per un istante l’amarezza e il dolore di un ennesimo distacco, di una nuova solitudine che sembrava spalancarsi sotto i suoi piedi ad ogni passo.

Sapeva che ora alzarsi e tornare a casa sarebbe stato ancor più difficile, ma anche rimanere lì ad alimentare le fantasie sconclusionate di un ragazzetto qualsiasi non sembrava più la migliore delle opzioni. Per di più il buio le aveva sempre lasciato addosso una sensazione sgradevole e preferiva trovarsi a casa se proprio doveva fingere di essere una persona adulta.

Quando si alzò in piedi L. sobbalzò spaventato e la panchina tremò per lo slancio eccessivo che la donna aveva messo nel tirarsi su. Forse lei stessa tremava, mentre le sue mani si stringevano a pugno e i piedi cercavano di non vacillare, mentre lei si costringeva a mettere un passo davanti all’altro. Sembrava non voler perdere altro tempo finché la motivazione era forte e L. – che ancora non aveva avuto il coraggio di pronunciare una sola parola – non potè fare altro che osservarla andare via.

“Non sarebbe mai stata all’altezza della mia fantasia” , borbottò prima che l’autobus si fermasse davanti a lui con uno stridio di gomme.

Di tutto un po'.

Su piani differenti.

Non ho mai pensato che le sensazioni andassero riportate sul piano della razionalità; mischiare i piani non credo abbia mai aiutato nessuno. O, almeno, non credo possa aiutare me. Razionalizzare ciò che si prova è solo una delle tante compulsioni umane, uno dei tanti tentativi di rendere accettabile o comprensibile qualcosa di cui neanche vorremmo conoscere l’esistenza.

Mi sono sempre chiesta perchè mi irritassi di fronte a coloro che erano sempre disposti a spiegare le mie sensazioni, a ridimensionare ciò che avevo provato, ciò che avevo vissuto. In parte credo sia dovuto al fatto che quando vivi per anni all’interno di una realtà che ti cancella, tra persone che non sono in grado – o non vogliono – riconoscere quello che provi, il primo che si permette di mettere in dubbio ciò che dici – o ciò che hai provato – nel tuo cuore è un uomo morto. Come si permette? Ma che si fotta. E non credo che sia interamente sbagliato pensarla in questo modo.

Chiunque si sia mai deciso a farmi delle confidenze ha ricevuto da me prevalentemente silenzio, comprensione e – se la situazione mi può parere simile a ciò che ho vissuto – un’opinione, un parere, una parola. Ma mai ho pensato fosse giusto ridimensionare ciò che mi veniva raccontato. E proprio per questo motivo, ripensando a come io mi comporto con gli altri, mi è saltata agli occhi una conclusione, una sorta di epifania: non ho mai avuto paura di ciò che provo, di ciò che provano gli altri e, proprio per questo, ho sempre accolto tutti, legittimato ogni emozione mi venisse raccontata, scivolando all’apposto, lasciando che ognuno potesse avere accesso alla mia emotività e su di essa costruire una leva per approfittarne.

Chi – invece – cerca di razionalizzare ciò che hai provato, ciò che hai vissuto, potrebbe semplicemente essere un presuntuoso, un pomposo pallone gonfiato, o forse ha paura della forza che sprigioniamo, dell’emotività che lasciamo fluire, del potere che vibra sotto la nostra pelle e che non abbiamo paura di mostrare, e allora tenta di ricondurre tutto questo a uno schema, a una forma circoscritta e comprensibile, a un linguaggio che non metta in dubbio le sue sicurezze.

Non so quale sia il giusto approccio, o se esista davvero il giusto approccio, quello che so è che analizzare ogni cosa, ricondurre ogni cosa ad uno schema solo perchè ne abbiamo paura, non fa altro che dare potere alle sensazioni e agli avvenimenti che ci accadono, non fa altro che far affondare la nostra anima, come pesi, ancore che ci fanno invischiare tra le pieghe di un fondale malmostoso e inquietante. E io preferisco la luce.

Di tutto un po'.

Penelope.

“Guarda che non mi chiamo mica Penelope eh!”

La frase squarcia il silenzio immobile di un pomeriggio di maggio. Una ragazza bruna agita con rabbia il pugno contro il cielo, attirando l’attenzione di L. che – alzando lo sguardo distratto dallo schermo del cellulare – cerca l’origine di quella voce adirata e incontra il profilo acuminato di una donna agitata. Lo sguardo della giovane sembra ancora perso dietro una macchina che si è allontanata a tutta velocità, quasi creda che sia ancora possibile raggiungerla. L. la immagina piegare le ginocchia con grazia, prendere la rincorsa e iniziare l’inseguimento gridando come una moderna amazzone alla ricerca di vendetta. La scena è un frutto così vivido della sua immaginazione che, per un istante, L. è quasi convinto che ciò che ha sognato stia per succedere.

Ma la donna non è un personaggio dei libri che L. ama leggere ed ogni sua possibile fantasia su corse a perdifiato nel caldo tramonto è destinata ad infrangersi contro una più banale realtà. Dopo aver lanciato uno ultimo sguardo alla curva dietro la quale è sparita l’automobile – uno sguardo che L. immagina sprezzante –, la donna scrolla piano le spalle e si dirige alla fermata dell’autobus, la stessa dalla quale L. la osserva incuriosito. La ragazza si siede a pochi centimetri da lui, gli occhi nascosti dietro due lenti nere e spesse, e un sospiro stretto in gola. L. sente che si sta trattenendo, che – se fosse stata sola – avrebbe pianto; ma lui è lì, condividono la stessa panchina, non c’è nessuna possibilità di solitudine in uno spazio così ristretto, e lei raddrizza la schiena, si irrigidisce, quasi questo bastasse a trattenere il dolore.

Più di ogni altra cosa, L. vorrebbe attirare la sua attenzione, riuscire a dire qualcosa di intelligente, anche solo far cadere qualcosa per terra sarebbe sufficiente per spezzare il silenzio tra loro. Le parole, però, paiono essersi congelate sulle sue labbra, fredde e inutilizzate. Il tempo sembra improvvisamente dilatarsi e velocizzarsi. L. sente che l’autobus sta per arrivare, sa che questo vuol dire separarsi da quella donna per sempre: non si sarebbero più rivisti e lui non avrebbe mai più avuto un’occasione per contemplare gli occhi di quella donna, non avrebbe mai più avuto l’opportunità di conoscere la sua storia.

L. sa che sarebbe una storia meravigliosa da raccontare ai loro nipotini, se solo racimolasse nel suo corpo la più piccola briciola di coraggio. Mentre respira profondamente e lo stomaco gli si stringe in una morsa, alza lo sguardo verso l’orizzonte e vede l’autobus procedere quasi sobbalzando lungo la via, distante e luccicante. Non c’è più tempo per il romanticismo.

“Chi sarebbe Penelope?”. Quella domanda gli esce dalle labbra con la stessa spontaneità di un colpo di tosse e L., imbarazzato dal suo stesso coraggio, sente le guance farsi roventi. Quella frase, però, attira l’attenzione della donna, che prima sobbalza per la sorpresa e poi si volge verso di lui, abbassando lentamente gli occhiali da sole sulla punta del naso. I suoi occhi – grandi e viola – inchiodano L. a quella panchina sporca e assolata come pali conficcati nel cuore. Il fiato dell’uomo si spezza di fronte a quell’assalto e – per alcuni interminabili istanti – gli pare di essere sul punto di morire. La voce della donna – ora roca e pigra – spezza l’incantesimo dei suoi occhi. “Come scusa?”, gli chiede inarcando le sopracciglia. A quel punto L. non può più tirarsi indietro, non può fare finta di non aver parlato. Deglutendo rumorosamente, ripete la domanda. La donna si lascia scappare un mezzo sorriso divertito, mentre tutto il suo volto sembra contrarsi in una risata trattenuta.

“Oh, beh, nessuno di speciale.”

L. sente che la donna ora non sta più trattenendo in sé il dolore e il disappunto, bensì una di quelle risate roboanti che nei libri assumerebbe la dolce litania di una fresca cascata. L. amerebbe ascoltarla, ma non sa come fare, non sa cosa dire. L’autobus è sempre più vicino, la sua ombra ora li oscura completamente, mentre il mezzo si ferma e alcuni passeggeri scendono.

Nessuno dei due sale.

Di tutto un po'.

“Sì.”

La luce del tardo pomeriggio – calda e dorata – penetrava timidamente dalle persiane accostate e accarezzava i loro piedi intrecciati. Fino a pochi istanti prima lui le aveva schiacciato il viso contro il materasso, mentre le sue dita si attorcigliavano ai suoi capelli spessi e lunghi. Lei aveva spalancato le cosce, lo aveva implorato di prenderla, di penetrarla, aveva annaspato alla ricerca del piacere come se da quello dipendesse la sua stessa esistenza. Le sue mani erano affondate nel lenzuolo, lo avevano stretto al punto tale che era difficile immaginare chi si sarebbe spezzato per primo.

E lui aveva approfittato di quelle cosce spalancate, di quelle cosce morbide e piene che si aprivano per lui, di quella carne umida e calda che si schiudeva sotto le sue carezze. L’aveva riempita e aveva trattenuto il respiro, mentre le loro carni si adattavano, si stringevano l’uno all’altra in una morsa ferrea, quasi tremavano per quella perfezione divina che si perpetrava: solo in quei momenti sembravano fatti per stare insieme. Lei si era lasciata scappare un gemito e – nonostante il materasso assorbisse il rumore – lui aveva sentito quel suono riverberarsi in tutto il suo corpo. Era come tornare a casa. L’aveva stretta a sé, sperando che le dita potessero affondare sotto la sua pelle, desiderando ardentemente imprigionare la sua essenza, la sua luce.

Quando tutto era finito erano rimasti in silenzio, gli occhi sbarrati rivolti al soffitto azzurro. Tutto sembrava improvvisamente attutito, ogni rumore proveniente dalla strada giungeva smorzato alle loro orecchie e la passione che li aveva incendiati aveva ceduto il passo ad una calma surreale. Quando finalmente lui trovò la forza di aprire la bocca per parlare, lei sembrò intuirlo e scosse piano la testa, facendolo desistere. I capelli della donna seguirono il movimento quasi impercettibile del capo e – per un istante – agli occhi del giovane sembrarono onde di un mare che si preparava ad accogliere la tempesta. Erano vivi e l’avrebbero ingoiato se solo avessero potuto.

“È finita, vero?”

“Sì.”

Di tutto un po'.

È sempre un problema di cuore.

Signorina si sente bene?”

Che qualcuno possa voler attaccare bottone su un mezzo pubblico è assurdo e poco credibile. La maggior parte delle persone che provano ad avvicinarti sono mendicanti o turisti che non sanno quale direzione prendere e – ad entrambi – è difficile riuscire a rispondere. La gente è fin troppo impegnata per fermarsi a pensare che ci sia qualcun altro nel mondo, qualcuno di cui – anche solo per un istante – possiamo incrociare l’esistenza, qualcuno sul quale interrogarci curiosamente. La fretta, gli impegni dell’esistenza, i nostri stessi pensieri fanno sì che un velo cali tra noi e il mondo: ciò che potrebbe essere scoperto rimane a palpitare nel suolo umido, inascoltato. Quando S. sentì quella domanda, dunque, non pensò neanche per un secondo che fosse rivolta a lei e il suo sguardo rimase incagliato nel fazzoletto umido che stringeva tra le mani, quasi fosse la sua unica consolazione rimasta.

Ogni tanto, però, qualcuno che abbia voglia di parlare esiste e – come in questo caso – si trova proprio nel sedile di fronte al tuo in un tram che sta sferragliando per il centro città. Questo qualcuno – nel caso specifico Mrs. E. – non si lasciò di certo scoraggiare dal silenzio nel quale era caduta la sua domanda, ma anzi, si sporse verso la giovane con un piccolo sorriso di incoraggiamento. “Signorina si sente bene?”, ripetè e, in questo caso, S. non potè non riscuotersi dal proprio torpore e incrociare lo sguardo gentile e curioso di Mrs E., che cercava di indagare i suoi occhi umidi e tristi. “Dice a me?”, chiese con un certo imbarazzo e sbattendo più volte le palpebre, sperando così di allontanare le lacrime che stavano per colarle lungo le guance. Non era certo la prima volta che si lasciava andare al pianto in pubblico, ma non le era mai capitato che qualcuno lo notasse e le chiedesse come si sentiva. Sentirsi rivolgere quella domanda, dunque, la faceva sentire nuda, imbarazzata e stupida: rispondere ad una domanda del genere avrebbe voluto dire accettare ciò che stava provando, anche l’assurdità di tutte quelle emozioni, di tutti quei pensieri disperati e cavillosi che l’avevano assillata per giorni e ai quali non riusciva a dare un ordine. Come poteva ammettere ad alta voce che – forse per la prima volta nella sua vita – non riusciva ad avere il controllo di ciò che provava, della persona per la quale provava quel groviglio senza senso e pieno di nodi? Ma quello che provava, poi, cos’era? Quale nome poteva dargli? Non averne la minima idea la faceva impazzire. Cosa poteva esistere senza un nome?

Come poteva spiegare a quella donna che aveva pianto e urlato nella sua casa vuota e silenziosa, aveva rimuginato per giorni su ciò che ancora non riusciva a comprendere, si era lasciata abbattere dalla tristezza e aveva passato l’intera giornata a letto, lasciandosi inebetire dalla televisione? Lei che non aveva mai paura, lei che non si lasciava mai fermare da nulla, lei che aveva imparato a schiacciare il dolore in un angolino della sua anima mentre continuava a vivere, si era sentita improvvisamente impotente e incapace, era riuscita solo a indulgere in uno strazio (almeno apparentemente) creato unicamente dalla sua mente, una mente che aveva bisogno di capire ogni cosa, di smantellare ogni persona e ogni parola si trovassero ad incrociare il suo cammino per poterne controllare l’influsso sulla sua vita, per poterli vedere nella loro interezza quando era assolutamente impossibile ricreare un’immagine realistica, vera, assoluta, completa, giusta di qualsiasi cosa, di qualsiasi persona.

Come poteva spiegare ad un’estranea che per la disperazione, per l’esasperazione di non poter inveire contro nessuno, di non poter parlare con nessuno, si era sentita esplodere mille volte, aveva sentito l’esatto momento in cui la sua mente era collassata su sé stessa, aveva percepito distintamente l’istante in cui neanche le parole borbottate a sé stessa, le giustificazioni, i tentativi di spiegazione non erano più stati sufficienti, e aveva riempito una stupida borsa di alcune stupide cose che lui aveva lasciato a casa sua, si era sbattuta la porta alle spalle e si era messa a correre, correre, correre, mentre il vento le frustava il viso, mentre i suoi occhi lacrimavano e lei non riusciva a distinguere se fosse per la troppa tristezza o per quell’aria fredda e pungente che correva nella direzione opposta.

Quando aveva sentito il tram sferragliare, si era slanciata verso le sue porte aperte e si era lasciata inghiottire da quel mostriciattolo giallognolo. Aveva pensato che quello fosse un segno del destino, che sarebbe andata da lui, che avrebbe suonato a quel dannato campanello e se lui non avesse risposto avrebbe fatto a brandelli le sue cose, le avrebbe sparse davanti al portone, avrebbe fatto in modo che lui le vedesse, che si rendesse conto che non aveva nessun potere su di lei, che lei aveva avuto la forza e il coraggio di cancellarlo, di dimenticarlo, di escluderlo dalla sua vita.

Ma quando si era seduta lì, quando la rabbia, il dolore e l’impotenza erano rifluiti da lei seguendo il dondolìo costante e rassicurante del tram, aveva iniziato a piangere silenziosamente, come se si fosse resa conto per la prima volta da quando quella terribile follia era iniziata che nulla di quello che aveva progettato fino a quel momento aveva senso, che quelle cose che aveva appallottolato nella borsa le erano più care di quanto avrebbe mai potuto pensare, che quella pazzia, che quella tristezza la stavano trascinando in un gorgo che aveva voluto creare, un gorgo all’interno del quale ogni cosa doveva essere distrutta, ogni cosa doveva essere spazzata via perché anche lei pensava di sentirsi così: spezzata, sola, abbandonata. Quanto c’era di vero in tutto questo? Quanto di quello che provava affondava le radici in un passato che si era convinta di aver superato? Quante volte aveva pensato di aver tappato quelle crepe, di averle ricucite bene e quante volte aveva sentito quelle ferite riaprirsi senza pietà, lasciandola sanguinante a terra?

Ma non era possibile dire tutto questo a una estranea. No, non era proprio possibile, neanche quando la sconosciuta si era chinata verso di lei con sollecitudine, aspettando una risposta.

“È solo un po’ di allergia”, rispose S. scrollando le spalle. Mrs E. sorrise con dolcezza a quelle parole tremanti e strinse una delle mani di S. che aveva lasciato andare la presa sul fazzoletto umido e spiegazzato. “Qualsiasi cosa abbia pensato di fare questa sera, lasci perdere signorina, se le va di seguire un consiglio. Scenda alla prossima fermata e torni a casa.”

Di tutto un po'.

riflessione nr. 212

Stamattina ho avuto una sorta di epifania che credo cambierà completamente il mio modo di vedere le parole degli altri: fin da quando ero troppo giovane mi sono abituata a non fermarmi a ciò che mi veniva detto, ma a scendere più a fondo nelle parole, cercare significati ulteriori, provare a leggere la realtà dissipando la nebbia che la avvolgeva, una nebbia che non dipendeva da me. Questa abitudine, forse, mi ha salvato la vita quando avevo quattordici o quindici anni, mi ha aiutato a sopravvivere al dolore del riconoscimento, mi ha fatto sentire forte, indistruttibile, perchè – qualsiasi cosa io stessi attraversando – avrei sempre visto la verità e la verità mi avrebbe salvato.

Quando si acquista un’abitudine, però, è difficile lasciarla andare, è difficile che non plasmi la nostra mente a sua immagine e somiglianza, rendendoci – da quel momento – delle persone completamente diverse da ciò che siamo sempre stati. Le abitudini di per sè non sono un male: ci aiutano a riconoscere la realtà, ad accettarla, a farla nostra attraverso degli schemi mentali familiari che attenuano la nostra paura della diversità. Un’abitudine acquisita in una situazione emergenziale, però, proprio perchè nata dal disperato tentativo di sopravvivere, racchiude in sè meccanismi che poco si adattano alla vita di tutti i giorni: neanche una gazzella corre tutto il giorno per difendersi dai leoni.

Eppure – anche quando il pericolo è passato e puoi respirare normalmente – la tua mente, i tuoi pensieri continuano a correre senza requie, interpretano qualsiasi cosa, qualsiasi parola, qualsiasi gesto. Ed è questa interpretazione, questa ricerca di un significato altro a provocare dolore, più dolore di quanto le parole stesse possano mai arrecare, quasi fosse l’unica cosa che ci meritiamo di provare. Inoltre sovrinterpretare ogni cosa, attribuire a ciò che ci viene detto un significato che va oltre le parole stesse, rende l’altra persona un mero prodotto della nostra mente, quasi questa non fosse reale, non fosse abbastanza forte, adulta o matura da dirci effettivamente ciò che prova quando lo prova.

Vogliamo davvero che la nostra mente abbia tutto questo potere su noi stessi e sugli altri quando potremmo semplicemente lasciare che le cose si presentino a noi semplicemente per quello che sono?

Di tutto un po'.

riflessione numero 210

Quando per anni si pensa alla propria condizione come a un errore, quando per anni si pensa di essere nel torto, di essere il danno, i sensi di colpa sono qualcosa di estremamente comune con cui convivere. Ti senti in colpa perchè esisti, ti senti in colpa se non vai bene a scuola, ti senti in colpa perchè vedi cose che gli altri non vedono. Diventi tremendamente severo con te stesso, ogni traguardo che raggiungerai non sarà mai abbastanza, non sarà mai sufficiente a riempire il vuoto che senti dentro: il vuoto che immancabilmente scaturisce da una non accettazione. Ho sempre pensato che nascere e crescere in un ambiente che non ti ama è un po’ come tentare di far partire una macchina mentre questa ha il cambio posizionato sulla terza: osservi tutti gli altri riuscire a muoversi, senti il rombo del motore che asseconda le richieste degli altri e tu rimani lì, con una macchina esausta per la tua incompetenza, mentre ti chiedi cosa ci sia che non vada in te. In realtà non c’è niente che non funzioni o, quantomeno, niente che non si possa aggiustare con qualche piccolo trucchetto magico – e poi, cazzo, se schiacciassi la frizione e mettessi in prima ti sarebbe di estremo conforto.

Aiùtati: ecco, forse è questo che ci dimentichiamo di fare. Ci dimentichiamo che siamo noi il nostro primo strumento, che le Divinità ci hanno dato ogni mezzo per superare ciò che stiamo vivendo, anche quando ogni cosa ci travolge, anche quando ci sentiamo inermi [mi ricorda un po’ il mito di Platone sull’anima che si reincarna e che – prima di ridiscendere sulla terra – beve l’acqua del fiume Lete e dimentica tutto ciò che ha vissuto in precedenza. Ma ciò che ci pare dimenticato, in realtà è solo sepolto, in realtà può sempre tornare alla luce]. E quando il dolore ti pungola come vuoi sentirti? Come sarebbe giusto sentirsi? Ormai sono sempre più convinta sia giusto soccombere. Non ci sono altre scelte, altre possibilità. Ci dicono di combattere, ci dicono di essere forti, di non pensarci, di tenere impegnata la mente e – forse – hanno anche ragione, ma il più delle volte è solo un modo per scappare da ciò che sentiamo, per rimandare, per non specchiarci in quello che proviamo, per non essere indulgenti.

Mia nonna, ad esempio, è una di quelle persone che – se scopre che non stai facendo nulla e che sei anche felice di quella tua inattività – ti fa sentire in colpa fino a quando non alzi il culo da quella sedia, da quel divano o da dove l’hai appoggiato fino a quel momento e non ti metti a fare qualcosa, qualsiasi cosa. L’azione è il suo linguaggio e io mi ci sono rotolata come un maiale nel fango per talmente tanti anni, e senza assolutamente accorgermene, come se fosse normale parlare con la voce di qualcun altro [oggi – leggendo un articolo particolarmente interessante – ho scoperto che alcune delle cose che mi dice sarebbero classificabili come microaggressioni, frasi apparentemente banali come “dovresti pesarti più spesso”, “in effetti sei un po’ più piena”, etc, ma che in realtà si incastrano da qualche parte dentro di noi creando una ferita che non fa che allargarsi ogni volta]. È un po’ come essere Rambo, sempre pronti a difendersi da qualcosa o da qualcuno, in una costante situazione di emergenza e di pericolo, ma senza che ce ne sia più motivo.

L’unica cosa che potevo desiderare per me stessa era svegliarmi, aprire gli occhi, parlare con la mia voce, senza interferenze, seguire la mia Legge. Il risveglio è avvenuto in un momento in cui ero distratta e non me ne sono accorta subito, non ho nessuna data da segnare, nessun giorno da festeggiare. Eppure è successo e stamattina pensavo a quel famoso velo di Maya di Schopenhauer, quel velo che va squarciato. Ma chi ha la forza di comprendere che noi stessi, le persone che ci stanno più vicine e che pensiamo di conoscere non sono per niente ciò che immaginavamo? Credo dipenda dal fatto che – più ci sono vicine, più sono importanti per noi – più diventano per noi un ruolo, la loro immagine si cristallizza, non le vediamo più come persone, normali persone che – per una mera casualità – fanno parte della nostra vita: pensiamo che siano lì per noi, solo per noi, veniamo travolti da ciò che proviamo per loro, ci dibattiamo nello sconforto quando non rispettano le nostre aspettative, le aspettative che montano in noi perchè quelle persone non sono più qualcuno, ma rappresentano qualcosa per noi e quel qualcosa ha regole precise, rituali precisi e chi non li rispetta ci ferisce tremendamente. Come si è permesso di farci così male?

E dimentichiamo che tutto questo non è altro che un costrutto, una sovrastruttura, che una serie di casualità ci ha portato ad incontrare quelle persone solo perchè erano nello stesso luogo nello stesso momento, o perchè erano vicine ad altre persone che – a loro volta – erano legate a noi, con le quali possiamo solo sperare – se davvero lo vogliamo – di condividere qualcosa, un po’ di vita, un po’ di passi. Non c’è molto altro in fondo, nessuna poesia se non quella del destino che – di per sè – credo se ne freghi della poesia che possiamo ricavare dai suoi intrecci.

Riflettere su queste cose credo sia solo un modo di rendere giustizia agli altri — e, quindi, a noi stessi — quando veniamo giudicati mancanti: forse stiamo solo recitando una parte che non è la nostra: c’è chi è Otello e chi è Desdemona. Tu chi sei?

Due soli, Leggilo!, Spruzzi di creatività

“Due soli”: un’avventura tutta mia.

Nonostante quest’anno sia stato difficile sotto tanti aspetti, sono riuscita a ricavarmi una mia piccola nicchia personale all’interno della quale cerco costantemente di muovermi ed espandermi, senza farmi frenare o spaventare dai limiti che la società spera di imporci o da quelli che io stessa mi imponevo per il timore di non farcela.

Spesso i nostri sogni si trovano di fronte porte sbattute in faccia o a tal punto ben serrate da essere praticamente invalicabili: non ci sono trucchi che si possono adoperare, non ci sono grimaldelli in grado di scassinare le serrature del mondo dell’editoria per una persona sconosciuta e che non abbia chissà quale seguito sui social o nel mondo dello spettacolo.

O almeno questo è quello che è successo a me, ovviamente. Le poche proposte che ho ricevuto non mi avrebbero comunque permesso di allargare la mia cerchia di conoscenze e far sì che il mio lavoro venisse conosciuto e apprezzato da più persone di quelle che io stessa potrei mai coinvolgere.

Dunque ho deciso di fare da sola, di imbarcarmi in questa piccola avventura con un racconto al quale tengo molto e che mi è stato accanto in momenti in cui non mi sembrava possibile ci fosse una luce. È un racconto d’amore sull’amore, un racconto nel quale i due protagonisti – O. e B. – si sfidano, si nascondono dietro ironia e trabocchetti pur di non avvicinarsi, pur di non vedersi veramente, di non conoscersi fino in fondo, nonostante entrambi sappiano che – dopo quel loro primo incontro su un autobus semivuoto – niente sarà più lo stesso.

È uno dei pochi racconti che io abbia mai scritto che – anche se in un modo un po’ rocambolesco e laborioso – ha il suo lieto fine: ma non uno di quei lieto fine dove ogni cosa si aggiusta e si prospetta per loro un futuro roseo e privo di ostacoli; credo che il mio sia un lieto fine in costruzione, all’interno del quale i due protagonisti – pur spaventati da loro stessi e dai loro sentimenti – cercano di scavare a fondo nei loro animi per trovare il coraggio di convivere con questa paura: la paura di soffrire, di ferire ed essere feriti. Così facendo, tentano di aprirsi finalmente alla vita e all’amore. Nessuno sa come andrà realmente a finire, neanche io, ma spero per loro che le cose non siano mai così difficili da sembrare impossibili.

A pochi giorni dalla fine dell’anno, e a quasi un mese dalla pubblicazione su amazon di “Due soli”, posso fare un primo bilancio, tirare alcune somme, con la consapevolezza che il lavoro da fare è ancora molto: ringrazio tutti coloro che l’hanno acquistato dandomi fiducia; ringrazio coloro che hanno lasciato una recensione, che me ne hanno parlato in privato esprimendomi il loro parere; ringrazio tutti quelli che hanno cercato di aiutarmi a condividere i miei post sui social network; ringrazio anche coloro che ancora non l’hanno letto, ma che – forse –, leggendo questo post, saranno curiosi di andare a cercarlo e che – forse – lo acquisteranno.

Buona lettura!