Spruzzi di creatività

Sotto terra.

Claustrofobia. Questa è la prima cosa che ho pensato quando mi sono svegliata in una bara. Fiato corto. Fiato sempre più corto. L’aria che si assottiglia in uno spazio così piccolo. Dannata claustrofobia. E dannata bara. Sono viva o morta? Mi tasto il polso alla ricerca del battito. Dopo alcuni attimi di terrore sento la vena pulsare. Pulsa troppo perché io sia morta. Ma se sono viva che cazzo ci faccio qui? Deve essere uno sbaglio. O un incubo. Anche perchè come faccio ad essere sicura che sia una bara? Mi pizzico per svegliarmi, ma la situazione non cambia. Tocco le pareti intorno a me e sembra legno. Molto presto l’aria diverrà anidride carbonica e io morirò. La prospettiva è allettante, vero? Sento qualcosa di caldo e viscoso scivolare lungo la gamba. Tasto la coscia e impreco per il dolore. Chi cazzo mi ha conficcato una freccia nella gamba? Non posso toglierla, a meno di non voler morire dissanguata. Almeno questo è quello che mi ricordo dai pochi film d’azione che ho visto. O dalle puntate di Dr. House viste a ripetizione su Italia Uno. Una dannata freccia e una dannata bara. Ma chi usa frecce nel ventunesimo secolo? Troppo anche per me. È impossibile aprire una bara dall’interno senza qualcosa di affilato. Sarebbe inutile sprecare energie cercando di rompere il coperchio a suon di pugni.
È la fine dunque. Morirò soffocata dalla mia stessa anidride carbonica. Abbastanza surreale. Un po’ come me.
Lascio tutti i miei averi al mio cane, recito mentalmente. Non ho un cane, ma meglio un qualsiasi cane che la mia famiglia. Anche uno pieno di pulci e con la rabbia. La rabbia si può attaccare attraverso il morso, vero? Ecco. Lascerò la mia misera eredita al primo cane che attaccherà la rabbia alla mia famiglia. Ha preso nota, notaio? Ah già. Dimenticavo. Sono in una cazzo di bara e non c’è nessuno che possa scrivere e autenticare le mie ultime volontà. Chissà se hanno avuto tempo di scavarmi anche una fossa abbastanza profonda. Almeno tre metri se non vogliono che la mia bara e il mio corpo putrefatto vengano ritrovati da qualche parte da un passante distratto. Chissà dove sono. Spero che abbiano scelto un bosco pieno di pini odorosi per seppellirmi. Un bosco pieno di pini odorosi è una pineta, vero? Almeno non sarò costretta a sentire il puzzo di marcio proveniente dalla mia carne in decomposizione.
Un rumore improvviso mi fa rizzare le orecchie. Con un sobbalzo il coperchio si apre. La luce ferisce i miei occhi e impiego un paio di minuti per riabituarmi alla luminosità artificiale di un neon solitario.
“È ancora viva.” La voce di un uomo rimbomba nella stanza vuota che, dopo un’occhiata incerta, mi sembra un capannone industriale. Una donna si sporge e io ne vedo il viso. “Dannazione! L’erba cattiva non muore mai.”
“Buongiorno madre.” La mia voce sembra uscita dalle viscere della terra.

Spruzzi di creatività

Distanze linguistiche.

Ti amo. (Pausa)
So che sembra stupido, infantile per certi versi, ma è la realtà. E so che non ci conosciamo, che non sai nulla di me e io di te, ma ti amo. Il mio cuore ti ha scelto, così, senza pensarci. (Comincia a camminare avanti e indietro)
È stato un po’ come ricevere una scarica elettrica. Un bizz ed ero partita. Come quando ti formicola la pelle per un brivido inatteso. Hai presente? Non sapevo come dirtelo o se dirtelo fosse giusto. Io sono tremendamente complessata, ho talmente tanti problemi che decidere di conoscermi e di stare con me sarebbe tutto fuorché saggio. Nonostante ciò non potevo più tacere. Non potevo più guardarti negli occhi, maturare fantasie su di noi, senza sapere di avere una possibilità. Ho passato lunghe notti insonni prima di trovare il coraggio di parlarti. Ho provato a preparare un discorso, ma non ricordo neanche una parola di quello che ho scritto. (si tormenta le dita con i denti)
Tu sei una persona così seria, equilibrata. Perché dovresti farti rovinare la vita da me? Non posso neanche assicurarti che ti amerò meglio o di più di qualsiasi altra persona. Non posso assicurarti che non mi arrabbierò e che non urlerò. Non posso assicurarti che non ti sveglierò la notte perché mi muovo troppo nel sonno e ti costringerò a lottare contro le mie gambe che ti spingono sul bordo del letto. Non posso assicurarti che starò sempre attenta o che piacerò a tua madre. Non posso neanche prometterti che sarà per sempre. Non lo so. So, però, che se non ti dico che ti amo impazzirò.
(Si passa una mano tra i capelli)
Ti amo. Non so precisamente cosa vuol dire. Fedeltà? L’avrai. Amore? Lo avrai. Presenza? Ci sarò sempre, anche quando sarò incazzata, anche quando sarà difficile, anche quando vorrei tirarti un pugno sul naso. Costanza? Mi impegnerò per non creare troppi scossoni tra noi. Sento che insieme potremo iniziare qualcosa di dannatamente buono. Se non cogliamo questa opportunità ora, siamo sicuri di poter trovare un amore simile in futuro? Così intenso e travolgente da togliere il fiato?
(Silenzio. Lui si volta verso di lei.)

“Entschuldigen Sie. Ich spreche nicht Italienisch.”

Spruzzi di creatività

Specchio.

Una mano sulla superficie liscia dello specchio. Il mio riflesso che cerca di emergere dalla patina di vapore. Quello che vedo mi provoca un conato. Cosa vuoi da me?, gli chiedo, ma il riflesso tace. Le occhiaie sono nere e profonde e fanno sembrare gli occhi spiritati. Sembrano o sono? Sotto le pupille verdi si agitano onde di inquietudine cavalcate da mostri marini. I capelli bagnati scendono in rivoli lungo le guance. Si arrotolano, scivolano, si arricciano sulla nuca. Non li taglio da troppo tempo. Ormai hanno preso il controllo del mio viso e della mia testa, facendomi sembrare una di quelle balle di fieno dei film western.

Il mio riflesso aggrotta la fronte, distogliendomi da quei pensieri farneticanti. Iniziano a formarsi delle rughe intorno agli occhi. Non è invecchiare che mi spaventa, però. Sulle labbra a forma di cuore è rimasto ancora qualche residuo di rossetto. Avrei preferito me l’avesse tolto a suon di baci e il mio riflesso è d’accordo, perché fa una smorfia. L’accappatoio lascia intravedere l’incavo tra i seni piccoli e scarni, nascosti tra le pieghe di spugna.
La mano scivola dal vetro, lasciando l’impronta insicura di una presa tremante.
Cosa vuoi da me?, ripeto. Il mio riflesso distoglie lo sguardo. Le sue mani corrono a far scivolare l’accappatoio per terra. Il corpo è smilzo, privo di qualsiasi curva. Non hai nessun pudore?, gli chiedo, ma lei fa scivolare le mani sul suo corpo fino a stringere i seni a coppa. Smettila, le urlo in un singhiozzo, ma le sue labbra si aprono in un ghigno, mentre le mani scivolano più giù. Mi spaventano i suoi denti appuntiti. Li immagino stretti sul mio collo, intenti a spremere via la vita dal mio corpo. Vedo già il sangue formare una pozza irregolare e densa sul pavimento bianco. Con cosa si lava via il sangue?

Il conato di vomito si ripresenta e nella bocca il gusto conosciuto della bile. Deglutire mi costa uno sforzo epico.

Il suo viso è ora stravolto dal piacere mentre si accarezza la carne bagnata e soffice.
I miei occhi spiritati e spalancati sul mio riflesso. Su quelle dita che sanno operare una magia così potente.

(Pezzi di vetro si spargono per il bagno)

Rivoli di sangue lungo le mani. Le sue dita che si avvolgono intorno ai miei capelli e tirano. “Io sono te”, sibila.

(Un urlo lacerante nella notte. Si sveglia sudata.)

Letteratura spazzatura

Cavalli d’acqua.

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Lo so. È da un po’ che non faccio recensioni di libri, ma, come si suol dire, a volte ritornano e io, evidentemente sono ritornata. Come al solito titolo e nome dell’autrice sono in copertina quindi non sto a ripetermi. Non avevo nulla da leggere in casa e la copertina mi ha incuriosito. Posso dire che non avevo mai sentito quest’autrice prima d’ora, anche se nella quarta di copertina c’è scritto che è diventata famosa con la trilogia “Shiver”. Non sono andata a cercare di cosa parlasse, ma immagino dal titolo che si tratti di qualcosa di erotico. Raggiunto il successo, immagino che abbia pensato:”Scriviamo un libro a caso. Tanto me lo comprano lo stesso.” Io, fortunatamente, non l’ho comprato. Dalla trama mi era sembrato un libro fantasy dove la solita eroina tenta di scardinare le regole della società e, nel farlo, si imbatte accidentalmente nell’amore e un po’ aveva attirato la mia mente curiosa.

Personalmente non apprezzo mai troppo i prologhi, ma in questo caso posso passarci sopra, dato che tenta di spiegare un evento che sembra aver segnato il protagonista maschile (Sean), ovvero la morte del padre. (Anche se, per onore, di cronaca, poi non se ne parla più, anche perchè l’introspezione dei personaggi è totalmente assente)

Il problema inizia col primo capitolo: la scrittrice utilizza la suddivisione in capitoli per poter illustrare entrambi i punti di vista, cosa che a me solitamente piace molto, soprattutto perché lei utilizza la prima persona. E vi chiederete: dov’è il problema? Ve lo spiego subito. La protagonista si chiama Kate, ma il nome in stampato all’inizio del primo capitolo è PUCK. E la domanda sorge spontanea: chi cazzo è Puck? Una decina di pagine dopo scopriamo che è il soprannome dato alla protagonista. Neanche lei, però, povera Kate, sa dire perchè tutti la chiamino così. Ed ecco la prima cosa che mi infastidisce. La seconda è che non c’è una descrizione dei personaggi. Tutto viene lasciato al caso, sperando che il lettore riesca ad intuire come siano i personaggi. Per ora sappiamo che hanno due gambe e due braccia come noi. Kate, l’eroina del libro, ha OVVIAMENTE i capelli rossi e questa è la terza cosa che mi infastidisce. Tutte le protagoniste di libri semi fantasy che io mi sia trovata a leggere nella mia seppur breve vita hanno sempre avuto i capelli rossi. Vogliamo uscire dallo stereotipo capelli rossi = animo ribelle? La Stiefvater non è ancora pronta per questo passo, però.

Neanche il posto viene descritto con dovizia di particolari o dandoci almeno una localizzazione geografica più o meno definita, cosa che mi irrita e mi piace allo stesso tempo. Mi piace perchè dà all’opera un’aria un po’ utopistica, dato che l’unica cosa che ci è dato sapere è che i protagonisti vivono su un’isola. (Stimola la mia anima filosofica, scusate)

Mi irrita perchè le descrizioni dei paesaggi sono quasi assenti e anche della spiaggia, che è il luogo nel quale si svolge la maggior parte dell’azione, ne ricaviamo un’immagine sfocata. Sabbia e mare, ovviamente. Del resto non c’è dato sapere.

A questo punto della narrazione ci vuole l’elemento scatenante: Gabriel, il fratello di Kate, dice che tra due settimane partirà per il continente (quale non è dato saperlo), lasciando soli lei e il fratello Finn. Kate, sconvolta, trova come un’unica soluzione quella di partecipare alla corsa che si tiene ogni anni il primo di novembre, in groppa ad un cavallo d’acqua. Ok, ora anche voi vi starete chiedendo perchè. Sinceramente? Non lo so. Questa scelta ha come unico risultato quello di ritardare la partenza del fratello di due settimane. E poi, altra domanda, che cazzo sono i cavalli d’acqua? Anche qui la descrizione è pessima. Da quello che si intuisce sono cavalli simili a quelli “terrestri”, addirittura con gli stessi colori, ma si nutrono di sangue e sono amanti dell’oceano che, a quanto pare è l’Atlantico. Anche qui. O dai dei riferimenti specifici per tutto o taci. Ma lasciamo perdere. Ogni anno questi cavalli si avvicinano a riva (perchè dovrebbero dato che sono cavalli d’acqua?) e la gente li cattura per correrci sopra, pur sapendo che sono tremendamente pericolosi e che possono ammazzare le persone con un morso. Lei, OVVIAMENTE, è la prima donna a proporsi di partecipare alla corsa e tutti la guardano come se fosse un’aliena, perchè, sì, le donne sono importanti, ma le corse sono per gli uomini. C’è un altro problema però: i genitori di Kate sono stati uccisi da un cavallo d’acqua, quindi lei cavalcherà la sua cavalla Dove, che tutti scambiano per un pony. Cosa che, onestamente, trovo assurda perchè un cavallo è un dannato cavallo. Ma passiamo oltre. Iniziano gli allenamenti, che si tengono sulla spiaggia, e lei rischia di essere uccisa già il primo giorno, ma entra in scena il nostro protagonista maschile che, dotato di bacche velenose, uccide il cavallo d’acqua che stava per papparsela. E in questa scena viene confermato un altro stereotipo per cui ringrazio da morire Maggie: se non c’è un uomo a salvarle le donne valgono come un due di picche a briscola.

Acceleriamo. I due, inizialmente, si annusano, un po’ come fanno i cavalli. Si danzano intorno e bla, bla, bla. Diventano amici, ma si vede che sotto c’è qualcosa, anche perchè nella trama è specificato che ci sarà una storia d’amore, quindi… Storia d’amore che, però, non viene assolutamente sviluppata, a parte per alcuni commenti di persone esterne alla coppia, nei quali viene evidenziato che tra i due c’è qualcosa di più (Noo? Davvero??),  e per i due baci che i protagonisti si scambiano.

Il finale è scontato e non starò qui a dilungarmi oltre. Chi taglierà il traguardo secondo voi?

(Il finale è decisamente banale e insultante per Sean che, prima di questa corsa, ne ha vinte 4 su 6 alle quali ha partecipato. In più è assolutamente illogica in quanto, nonostante tutto l’allenamento fatto in due settimane, non è immaginabile che un cavallo “terrestre” possa vincere contro dei cavalli d’acqua che sono più veloci, più forti e più aggressivi)

Per quanto riguarda il modo in cui è scritto lo trovo adatto ad un libro per bambini, in quanto l’uso delle frasi è elementare e stupidamente semplice. La traduttrice ha perso completamente la percezione del congiuntivo, usando sempre e comunque il presente indicativo. Verso la fine, ci sono alcuni punti scritti con maestria, ma che non bastano per salvare un libro che fa acqua da tutte le parti.

La cosa, però, che mi spaventa di più, è la possibilità di un seguito, accennato dall’autrice nelle note d’autore a fine libro.

Maggie Stiefvateri se mi stai leggendo ti lancio un appello accorato: risparmiaci un altro libro del genere. Te lo chiedo per favore.

Spruzzi di creatività

Catene.

Sono esplosa. Pezzi di me si sono appiccicati ai mobili, ai tappeti, alle persiane serrate. Sembrano appiccicaticci. Sarà per via del sangue. Distolgo lo sguardo da quello scempio.

Non mi hanno ascoltato quando avevo detto loro di maneggiarmi con cura. Hanno aperto lo scatolone con noncuranza e mi hanno agitato talmente tanto che, esasperata, ho lanciato un grido e sono esplosa. Se trovassi la mia bocca potrei ridere amaramente, ma immagino sia nascosta dietro il divano, come le mutandine dopo il sesso. Ridere. Ridere forte perchè esplodere ha fatto male solo a me. Loro sono rimasti seduti sulle loro poltrone di pelle, composti come statue greche. Come se non fosse successo niente. Vedo le mie mani trotterellare in giro. La mia bocca, da lontano, accompagna con lunghi lamenti le lacrime che scivolano dai miei occhi. “Puoi evitare di bagnare il pavimento? La cameriera ha appena pulito.” E io non ho neanche le mani per asciugarmi le lacrime.

Ti plasmo a mia immagine e somiglianza. Chiudi gli occhi e lasciati guidare. Le mie mani ti corrono addosso. Suonano lente la musica a cui dovrai rispondere. Come se la tua pelle fosse composta dalle corde di un’arpa. Sarai come i topolini della favola. Io suonerò il flauto e tu mi seguirai obbediente. Quando ti dirò di essere felice sorriderai fino a quando le guance non ti faranno male. E non pensare di ribellarti: cancellerò dalla tua mente ogni pensiero di sedizione. La tua fedeltà sarà incrollabile. Mi appoggerai anche quando sbaglierò, perchè per te sarò invincibile e retto. Mi chiedi che ne sarà della tua identità? Come puoi aver bisogno di un’identità quando sarò io a decidere per te? Ti dirò cosa desiderare, cosa odiare, cosa ti piace mangiare. Sarà tutto così semplice per te. Come camminare perennemente in un giardino di rose.

A me non piacciono le rose. Lascia decidere a me. Non vorremo mica che ti venga il mal di testa, vero? Le rose ti piacciono molto, soprattutto quelle rosse. Ti vestirai sempre in maniera modesta, senza colori troppo accesi. Meglio non farsi notare, dai retta a me. Metterai un filo di trucco, ma nulla di più. Non vogliamo certo che sembri una battona. Frequenterai la facoltà di lettere e diventerai un’insegnante. Tra cinque anni ti sposerai con un bravo ragazzo con un impiego stabile. Ci aspettiamo da voi almeno due bambini in quattro anni. Farai crescere i capelli e taglierai il ciuffo. Come possiamo vedere quei begli occhi azzurri, se no? Una volta cresciuti li raccoglierai in una crocchia, perchè i capelli sciolti danno un’idea di disordine. Non sei d’accordo cara? 

(Afferra un coltello dal tavolo e glielo punta alla gola) Spezza la catena o ti taglio la gola. Io non sono tua. Non lo faresti mai. Sono io che ti comando.

Ah sì? (gli taglia la gola e con un calcio spezza la catena)

Fanculo.

Spruzzi di creatività

Vasca.

Mangio petali di rododendro. Sono fucsia e donano vita alle mie labbra pallide. Il loro sapore è quasi aspro, ma scende lungo la gola come un liquore invecchiato. Se li strizzo tra le dita il loro liquido scivola lungo il mio braccio. È caldo e mi ricorda la vita che gli ho appena negato. Caldo quasi come se fosse il mio stesso sangue donatomi in sacrificio.

Mi faccio il bagno tra i petali di rododendro. Li verso nella vasca e li osservo rimbalzare sull’acqua. Alcuni si sfaldano, altri vorticano trascinati da una corrente invisibile. Rimango ipnotizzata dai loro movimenti, quasi convulsi. Sembrano i suoi pensieri vorticanti nascosti dietro quella fronte aggrottata. Avrei sempre voluto aprirgli il cranio per leggergli dentro. Frugare tra le sinapsi e i neuroni ogni volta che lo vedevo distante. Ogni volta che rispondeva “niente”, ma io sapevo che la calma apparente nascondeva l’arrivo di uno tsunami.

Mi immergo nell’acqua bollente. La pelle si colora di rosa, quasi pizzica per il calore, ma nulla può distogliere la mia attenzione da quei petali aggraziati. Solo il viso rimane fuori: una maschera ottocentesca che si osserva allo specchio appannato. Perfetta nelle proporzioni nonostante il naso aquilino che domina il viso scarno. I capelli, come mossi da vita propria, si sciolgono dalla crocchia e si allungano nell’acqua. Sembrano tentacoli dalle sfumatore grigiastre. Vogliono nutrirsi di petali anche loro? Non possono. I petali sono miei. Tutti miei. Mi sfiorano le braccia. Mi accarezzano le gambe. Si insinuano tra di esse come le dite esperte di un amante. Eccitano senza toccare. Toccano senza esistere.

Si perde in questi pensieri. Si porta i petali al viso. Prima li annusa, ne aspira la fragranza intensa come se fosse l’unica aria degna di riempire i suoi polmoni, poi li morde. Lo addenta come se fosse la sua stessa carne. Con devozione e ferocia. La maschera ottocentesca cede il passo al volto estatico, ogni volta che i due mondi entrano in contatto. Ogni volta che i petali si congiungono alla sua anima umana.

Senza accorgersene scivola nell’acqua. La maschera estatica svanisce, lavata via dall’acqua ormai tiepida. Il volto si corruga sotto la superficie limpida, ormai nudo all’occhio dello spettatore. Sembra voler dire qualcosa, ma le labbra, prive di vita vegetale, rimangono serrate.

Silenzio. Palpebre chiuse e mani agitate, increspano l’acqua limpida. Mani chiuse intorno alla sua gola e palpebre agitate. Ciglia che sbattono e fremono come ali di gabbiano nella tempesta imminente. Petali di rododendro vorticanti e maschere anonime.

Spruzzi di creatività

Bosco.

Neanche la luna illumina quel paesaggio desolato. Un’upupa lancia il suo lamento nel buio, creando una crepa nel muro oscuro della notte. Uno sparo. L’uccello tace, si stacca dal ramo e procede nel suo volo lento. Se aguzzi l’orecchio puoi sentire il suo sfarfallio. La colonna sonora di una notte senza luna.
Ti ho trovata per terra. Sembravi un tutt’uno con la terra. Come se avessi messo radici. Sei ancora umana? Ti ricordi di me? Mi hai sentito arrivare ancor prima che iniziassi a camminare. L’ho capito dal modo in cui hai irrigidito la schiena. Ti ho sentito fischiettare. O forse era quell’upupa che è volata via. Sembravi una statua. Non ti sei voltata, ma mi hai fatto cenno di sedermi. Avevi le gambe incrociate e mi chiesi se non avessi interrotto la meditazione. Solo un occhio era aperto. Mi scrutava. Vidi una pistola vicino alla tua coscia. “Perché hai sparato?”, ti chiesi. Tu apristi entrambi gli occhi. Come facevano quelle pozze nere ad essere così limpide nel buio? “Una zanzara mi dava fastidio.”
“Cosa ci fai qui?” Le tue mani si appoggiarono al suolo. Le dite si immersero nel terreno e io pensai di nuovo alle radici. Saresti mai tornata? “Sei tu che sei venuto. Dovrei chiedertelo io.” Io scossi la testa. “Torna.” Questo riuscii a dirti. Sembrò non interessarti. I tuoi occhi erano incatenati alle fronde degli alberi. Cosa stavi cercando? “Non c’è la luna.” La tua voce era come me la ricordavo, ma diceva cose che non capivo. “Non ci sono neanche uccelli.” “Hai spaventato l’unico che c’era.” Hai sbuffato, continuando ad accarezzare la terra. “Un colpo di pistola non ha mai fatto male a nessuno. Vuoi provare?” La tua faccia era mortalmente seria e io mi spaventai. “Vuoi spararmi dopo tutto quello che c’è stato tra noi?” Un sorriso maligno si aprì sulle tue labbra scarne. Non erano mai state il tuo punto forte. “Proprio per quello che c’è stato tra noi.” Una pausa. “Anche se l’unico ricordo vivido che ho di noi sei tu che sbuffi e sudi su di me.” Spalancai la bocca. Come potevi ridurre la nostra relazione ad un’immagine così disgustosa? E io sbuffavo e sudavo davvero? Ero solo un maiale in calore per te? La rabbia mi pervase e mi slanciai verso di te, ma ti bastò una mano per spingermi via. “Sei solo uno smidollato.” Non c’era rabbia in te o disprezzo. Solo occhi vacui. “Uno smidollato che ti ha scopato.” Ridesti di me, come se avessi fatto una battuta. “Non che ci voglia molto per quello.” Strinsi i pugni fino a che non sentii le unghie conficcarsi nella carne. “Sei solo una troia.”
“Magari lo fossi. Avrei almeno potuto pretendere di essere pagata dopo le tue prestazioni sudaticce.” Ti schiaffeggiai. Non so dove trovai la forza di farlo, ma si rivelò vana, perché  fu come se non ti avessi colpito. La tua guancia divenne subito rossa, potevo distinguere l’ombra delle mie dita grassocce sulla tua faccia, ma i tuoi occhi rimasero scarni e la tua bocca vacua.
L’upupa tornò al suo ramo. Il rumore del suo sfarfallio la precedette. Tu alzasti il volto verso la sua sagoma. La luna decise in quel momento di far capolino dalle nuvole. La sua luce invase il tuo viso, ricordandomi momenti in cui ancora sapevi sorridere. Anche con quelle labbra sottili e screpolate. L’upupa si appollaiò sopra le nostre teste e il suo lamento riprese. Invadeva la mente e cancellava tutto. Come si fa a pensare? A vivere? Non con quel lamento nelle orecchie. Non mi accorsi di nulla fino a che non sentii il rumore. Avevi sparato all’upupa. Rimasi scioccato dal fatto che, nonostante il buio, fossi riuscita a colpirla dritta al petto. “Si lamentava troppo.” A chi stavi dando spiegazioni? Sembravi insensibile alla mia presenza. Il suo corpo morto era a pochi centimetri da noi. Una pozza di sangue scuro si addensava sotto l’uccello. Tu ti sei chinata, hai immerso le mani in quel liquido pieno di bolle e ti sei spalmata il suo sangue sul viso. Con quelle strisce scarlatte sul volto pallido ti sei voltata verso di me.

(Sparo. Scivola a terra morto.)

Spruzzi di creatività

Cupo.

Due occhi spenti in un volto mobile. Un corpo vigile in una vita vuota. Il non senso di quelle labbra sorridenti. Una vita vuota in un mondo affollato. Un puntino lontano, nascosto tra milioni. Salvato dall’anonimato. Un anonimato scoperto, addobbato con delle luci al neon. Un fischiettio persistente ad ogni passo. Girandole negli occhi spenti. Una finzione di felicità. Labbra tese in un sorriso stucchevole. O aggrottate in una smorfia maligna. Maligna come i mostri della nostra anima. Ci mangiano pezzo per pezzo e chi pensa di poterli fermare è solo uno stupido. La devastazione è ovunque. Dentro di te. Fuori di te. Camminare nel mondo senza farne parte. Osservare tutto con occhi estranei, come se fosse pronto a partire da un momento all’altro. Dove vuoi andare? Non c’è posto dove la tua sete potrà trovare soddisfazione. Non c’è posto dove i mostri smetteranno di distruggerti.
Seduti a gambe incrociate ascoltiamo i loro denti mordere e triturare. I nostri volti impassibili. Distogli lo sguardo per paura di bruciarti. Come se stessi guardando il sole. “Girati.” Scuoti la testa. Si può andare verso la fine con un sorriso sulle labbra? Solo se sbava il rossetto. “Girati.” Piuttosto che girarti daresti via un rene in uno scantinato buio. Cosa vuoi da me? Cosa? Ti ho dato la vita. “Girati.” Perché non smette di parlare? Il silenzio la ferisce troppo? Vuole dimenticare il suo dolore arrecandone a me? “Girati subito.” Non vedrai più il mio viso. Non mi girerò più per cercare il tuo sguardo. Più che occhiate spente e crudeli non hai saputo dedicarmi. Se vuoi anche il mio sangue prendilo, ma lasciami in pace. “Girati e guardami.” Che la peste ti colga dannato animale. Nulla mi farà cambiare idea. “Ho la tua anima.” Come se fosse mai stata mia. L’hai avuta dal primo giorno e l’hai stretta talmente forte a te da ucciderla senza pietà. Stringi ancora un po’ e anche i miei polmoni non avranno più fiato per alimentare questo corpo stanco. “Voglio il tuo corpo.” L’hai avuto spesso e volentieri, ma non te ne sei mai saziato. Volevi sempre di più, ma io non sapevo cosa darti. Stringevi e lasciavi il segno. Lividi, graffi. Per te non faceva nessuna differenza. Solo che nessuno di questi segni ha mai urlato il fatto che io fossi tua. Le tue mani sono scivolose. Hai stretto a tal punto da non avere in mano nulla. Gemi di disappunto davanti alla verità? “Voglio il tuo cuore.” L’avevi e l’hai dato in pasto ai cani. Ancora ti ringraziano per quel pasto sofisticato. Ricordo ancora la tua risata, mentre la tua mano penetrava il mio petto per cogliere quel frutto palpitante. Cavami gli occhi se vuoi che ti guardi. Strappameli dalle orbite con le tue dita ad uncino e le pupille scure ti fisseranno spente e vuote. Ti accuseranno, ma tu non lo capirai mai, giacché mai hai pensato di aver fatto del male. Ogni tuo passo, invece, mi arreca dolore, come se camminassi sopra la mia colonna vertebrale.  Vuoi il mio sorriso? Disegnamelo con un coltello. Questo è quanto posso concederti ora. Vuoi strapparmi i vestiti e abusare di me? Così sia. Non ti fermerò. Che il mondo veda quello che mi hai lasciato: il vuoto. Un abisso profondo e cupo. Dal quale si libra solo un alone di tristezza e desolazione. Se sei qua per uccidermi non giocare con me. Sfodera il pugnale e colpisci. Dritto nel petto. Che si fermi questo cuore che, pur non appartenendomi più, continua a battere. Fate tacere questo tuono che mi squassa il petto. Fatelo smettere. “Girati e guardami.” Volete che urli? Volete che squarci il cielo con le mie maledizioni? Non mi girerò mai più. Mai più cercherò il vostro sguardo tra la folla, come se fosse l’unica àncora di salvezza in un mondo che non mi vuole. Mi avete incatenata a voi, avete fatto sì che io non avessi più certezze se non i vostri occhi e io ve l’ho lasciato fare. Che i bubboni della peste mi ricoprano per la mia stupidità. Ero cieca. Credevo che voi mi avreste amato per sempre. Credevo che saremmo stati insieme per tutta la vita, ma io per voi non sono stata che un arancio. Mi avete spremuta e di me sono rimasti solo i noccioli. La polpa è tutta nella vostra bocca. L’avete masticata talmente tante volte, che ogni movimento della vostra mandibola è stato per me come una frustata sulla carne viva. Sputatemi pure ora che di me non è rimasto nulla. “Girati.” Volete che vi guardi? Ebbene lo farò! Non si dica che io non sia coraggiosa. Vi guarderò negli occhi una buona volta, l’ultima.

[Si gira. Cade in ginocchio.]

Spruzzi di creatività

P di Palo.

Stasera ho parlato con un palo. Anche se, per dirla tutta, prima l’ho baciato. Un bacio che mi ha lasciato un bernoccolo. Non che io baci i pali senza conoscerli. Non è mia abitudine. Ero dannatamente ubriaca e mi sono lasciata andare. Ottimo il brandy di mio padre. O era gin? Sarà divertente sentirlo gridare domani mattina. Ho provato ad aprire la vetrina con una forcina, come fanno nei film, ma si è rotta in due pezzi. Allora ho semplicemente spaccato il vetro con una scarpa. Mi chiedo perché io non ci abbia pensato prima. Beh fanculo le eroine dei film. Siete delle bugiarde del cazzo. E io sono una ladra di brandy. O era gin? Quando ho conosciuto quasi biblicamente il palo ne avevo scolato più della metà. O forse la maggior parte era andata persa per strada, dato che avevo smarrito il tappo quasi subito. È stato così gentile da sorreggermi, mentre cercavo di allontanare la nebbia dal cervello. Ho sentito il sapore di sangue in bocca e mi sono accorta che mi stavo mordendo il labbro un po’ troppo forte. Mi sono girata verso di lui e mi sono presentata. “Ciao. Io mi chiamo Roxy.” La lingua non era molto agile e mi chiesi se il palo se ne fosse accorto quando l’avevo baciato. “So fare meglio di così.” biascicai. “È tutta colpa del brandy.” Alzai la bottiglia alla luce. “O è gin?” Il liquido, seguendo quella che credo essere la gravità, mi si è rovesciato addosso. Sono diventata subito appiccicosa. Ma non quell’effetto da film, molto sexy, dove dalla maglietta si intravede il profilo dei seni e dei capezzoli, colti dal freddo. Sembravo semplicemente una barbona ubriaca. “Secondo te sono sexy?”, gli ho chiesto esitante. Lui non ha risposto e in quel silenzio ho letto la sua disapprovazione. “Ma che cazzo vuoi da me? Come ti permetti di giudicarmi, eh?” Ho iniziato ad urlare con tutto il fiato che avevo in corpo, ma lui si era trincerato dietro quel suo stupido silenzio, come se questo potesse farlo sentire superiore. Al limite della pazienza, ho iniziato a picchiarlo. I calci, però, facevano più male a me che a lui, perché iniziai a saltellare reggendomi il piede. Più saltellavo, più sentivo che il brandy (o era gin?) voleva tornare dall’aldilà per fare un saluto. “Sei come tutti gli altri uomini! Nessuno che mi apprezzi davvero!” Credo che ringhiai prima di riprendere a parlare. O forse deglutii per evitare di vomitargli addosso.  “E ti ho pure baciato! Stupida io a credere che tu fossi diverso!”
Proprio mentre stavo per sferrargli il colpo mortale che mi avevano insegnato al corso di autodifesa, l’acqua gelida mi piombò addosso con la forza di una tempesta in mare aperto, accompagnata da una voce arcigna. “Stai zitta stronza e lasciami dormire!”